Son trascorsi pochi giorni dalla sua scomparsa. Una partenza fisica che certamente ha lasciato, e lascerà, vuoti in chi gli ha voluto bene. A dire il vero, tutti gli volevamo bene, come si può non voler bene a una persona di famiglia che per alcuni è stato amico, padre, per altri nonno, zio. Un punto di riferimento per la comunità acciaccata che siamo. Se n’è andato perché giunge il tempo di fine corsa, fa parte del nostro ciclo di esseri perimetrati da cicli di nascita, crescita e morte. Ci ha lasciato nel tempo di uno stravolgimento epocale, che ci segnerà e, mi auguro, ci insegnerà a vivere in modo differente. Le crisi, le difficoltà, le ansie, sono prove che o ci aiutano a crescere oppure ci annientano, ma se penso al Signor Franco La Pica, so che lui opterebbe per la prima soluzione. Funerali ridotti all’osso, nel tempo del Covid19, con un saluto da parte di chi lo ha amato. Sono tra quelle persone che non sono andate al funerale ma non me ne vergogno. Il Signor Franco lo conoscevo sin da quando ero bambina e lui conosceva me e la mia famiglia. Era presente al funerale di mio papà e di certo ha compreso, per ragioni di tutela familiare, la mia scelta di non andare. Sa anche che io andrò a fargli visita e chiacchiereremo in privato. Il Signor Franco era un punto cardinale per la rotta della nostra Città, ed era anche e suo malgrado diventato un toponimo.
«Dove vai – ti si chiedeva– vado all’edicola da “Franco”», perché in ogni luogo ci sono posti contrassegnati non geograficamente ma tramite i nomi di persone o marche. Penso a noi che, ancora oggi, diciamo: «Vado alla “Standa”» perché è il primo supermercato che ha segnato l’ingresso in una nuova era. Ecco, andare da “Franco” – che in quell’edicola vicino a Porta Messina ci ha lavorato una vita – era segnare, nella nostra memoria, un luogo che ha anima perché una persona lo definisce. Il Signor Franco non lavorava più lì da tantissimo tempo, ma per noi l’edicola resterà sempre da “Franco”. Ed è una bella cosa, che deve riempirci di gioia al tempo delle “zone rosse” e di quelle “protette” che mi fa tanto pensare ai noi tutti avvolti da profilattici giganti che andiamo in giro spaesati.
Eppure, mai come adesso quel lascito che Franco La Pica ci ha donato, torna utile come un “vademecum” di sopravvivenza che ci restituisca le linee guida per non perderci e per continuare a sperare che “Andrà Tutto Bene”. Nel 2011, La Pica ricevette il “Premio Città di Taormina” per la Poesia. Quando seppi della scelta ne fui immensamente felice; i premi e i riconoscimenti vanno dati quando si è in grado di poterli apprezzare e non postumi, come troppo spesso accade. Il Signor La Pica ed io siamo sempre stati in contatto. Mi scriveva per avere consigli e suggerimenti sui testi suoi e su quelli scritti da altri. Mi chiamava “Dottoressa Bachis” non per piaggeria ma per autentica stima e rispetto. Stima e rispetto reciproci. Quando curavo un’altra rubrica su un altro giornale, lo intervistai varie volte, raccogliendo i suoi aneddoti e le testimonianze di cui sia lui che altri nostri concittadini erano e sono sacro ricettacolo. Esiste infatti una sacralità, della Memoria e della Testimonianza, che costituisce la linfa per la tradizione che in quanto tale va tramandata.
Ai tempi del Covid19, la poesia, le leggende, i video, le storie e la raccolta documentale di Franco La Pica possono essere per noi quel pane di sapere, che distingue l’essere umano dalla macchina. Cibo contro la barbarie e l’oscurantismo degli analfabeti funzionali. Una bussola per navigare in acque di significato dove la parola “umanità” non è solo una voce sul dizionario delle frasi fatte.
Quando mi fermavo a chiacchierare con il Signor Franco – che prima di tutto mai dimenticava di chiedermi «Dottoressa come sta? Sa io la leggo sempre e mi piace quello che scrive» –, mentre lo ascoltavo parlare, era come se insieme a noi ci fossero anche mio papà e mia nonna e mia mamma e i miei zii, e tanti altri. Li vedevo lì insieme a noi a raccontare della guerra e della tessera per andare a prendere il pane; delle camicette che mia madre e le sue sorelle ricamavano alla luce delle candele per poi andarle a vendere a Taormina da “Orsola”. Agli sfollati nelle campagne, dove si potevano trovare i soldati tedeschi rintanati e dove i cavalli erano bottino e dicevano le preghiere perché sarebbero stati cibo. Il Signor Franco narrava, ed io ricordavo tutti quei racconti che ascoltavamo noi ragazzi in estate, seduti sotto il Gelsomino da mia nonna. Ripensavo a mio papà perché lui lo diceva: «Bachis, un vero signore». E correva la mente, a mio nonno paterno che invece della Bibbia aveva sul tavolo della cucina “L’Unità”; ai racconti di quando lavorava in ferrovia e con lo zio facevano a botte con i fascisti, affamati tanto quanto loro. Al pane fatto in casa, a mia mamma che diceva di avere la pancia troppo gonfia da bambina, per via della carenza di alimentazione completa. Le parole del Signor Franco erano le parole dei miei parenti. Narravano narravano, tutti insieme.
Ora, al tempo del Covid19, io che della Memoria e della Testimonianza ne ho fatto un segmento prezioso del mio lavoro e un tassello della mia anima, dico che tutti i nostri pilastri vanno fortificati e protetti. Perché pur essendo più deboli, gli anziani non sono solo numeri ma sono la nostra stessa forza. Sono quelle radici che ci hanno permesso di giungere sino a qui. Dico ciò perché il Signor Franco sarebbe stato d’accordo con me e aggiungerò ancora: ci si prenda l’impegno serio di far sì che il lascito di Franco La Pica divenga un archivio da poter consultare, non lo si lasci cadere nell’oblìo. Senza Memoria saremo alla deriva e invece abbiamo la responsabilità di trasmettere le regole per una ricostruzione virtuosa ai nostri ragazzi, per renderli migliori di noi, a partire da oggi, al tempo del Covid19.
In tal senso, l’auspicio migliore è racchiuso in questa lirica del 9 settembre 2018 del Signor Franco La Pica.
QUELLA È CASA MIA
Là dove il sole lascia
il primo bacio?
Là è casa mia,
e dove di meriggio
lascia a ora tarda
il suo ultimo raggio?
Là è casa mia.
Dove vedi il gheppio
volteggiare
e la volpe raggirare
il monte alle pendici
con il canto di cicale
che tiene compagnia,
là è casa mia.
Quel posto dove il faggio
accarezza il cielo
e dall’abitare
vedi la luna
che si specchia in mare
mentre ogni raggio di luce
ha la sua poesia,
dove vuoi che sia?
È sempre casa mia,
e dove l’orecchio coglie
dal selvaggio
anche lo stirar di foglie,
il mandorlo biancheggia
e il vento alita
suoni di magia?
Quella è casa mia.
Il posto dove gli uccelli
han scelto di volare
le ferule a sbocciare
e ogni rumore
sembra una sinfonia.
Quella è casa mia.
Con immenso affetto, Signor Franco, per una nuova Primavera.