Lu sai pirchì iu l’amu lu dialettu
la matri lingua d’u me paisi?
Pirchì mi la nzignaru senza spisi
e senza sforzu d’u me ntillettu;
pirchì non ci nni levu e non ci nni mettu,
ca lu so meli, cu’ fu, ci lu misi;
pirchì è onesta, tennira e curtisi
e quannu canta attenta a lu me pettu.
L’amu pirchì ci sentu dintra la vuci
di tutti li me’ nanni e li nannavi
di tutti li me’ vivi e li me’ morti;
l’amu pirchi’ mi fa gridari forti:
“Biddizzi chiù di tia non c’è cu’ nn’avi,
terra fistanti mia, cori me duci!”
Questo è un componimento poetico vernacolare di Vincenzo De Simone, scritto nel XIX secolo. La lingua siciliana è di per sé un moto poetico e musicale, temprata com’è dai passaggi storici e di contaminazione culturale attraverso i millenni. Si muove ondeggiando da donna sensuale e riservata; che vi guarda con occhi di fuoco ma muove impercettibilmente le labbra cantando un’antica melodia e vi fa ribollire il sangue. Lingua che canta l’amore sacro e quello profano, memore della poesia araba e di quella provenzale. Suoni di battaglie echeggiano nei versi dei vari scrittori e poeti. Lingua di popolo, scuote gli animi dal torpore delle giornate troppo luminose, portatrici di un’intrinseca tristezza che langue in fondo ai petti, essa si esprime per convincervi che tutto sommato val la pena stare al mondo, per il brillìo tra un’onda di mare increspato di zaffiri e il profumo dei gelsomini e delle ginestre. Sa di terra, tra lava e campi piantati a viti e grano questa lingua; sa di fatiche e di pianti silenziosi perché il dolore, quello vero, deve rimanere in angoli attutiti dentro le vostre case e i drammi che si consumano, sono quelli sacri urlati pubblicamente. I dolori intimi vanno taciuti perché secoli di passaggi d’uomini e d’armi ci hanno resi diffidenti. Lingua ambivalente: elogia la bellezza, schernisce i difetti ma sa piangere lacrime di sangue per desideri di riscatto. Lingua di madre: culla i suoi figli con una nenia, mentre li allatta per renderli duri e callosi come le mani che lavorano la fatica dei giorni. Lingua creatrice: popola di gesta e racconti; sonetti e poemi le vostre notti antiche con una luna che vi “sciamunisce” e vi fa innamorare perdutamente al suono d’una serenata.
Questa lingua è una migrante: si sposta nei paesi e la ritrovate in bocca ai venditori, dentro ai mercati di quartiere o quelli rionali. Piazze, strade, vie si trasformano in suk. Penserete d’essere in un mercato arabo. Vi sedurranno i colori, gli odori e quelle parole vi incanteranno. L’arte del “bannio” si riversa attraverso le epoche e giunge a noi, seducente, ancheggiando morbida come la donna ritratta di spalle, della Vuccirìa di Guttuso.
La Regione Sicilia con il P.O.R. Sicilia 2000-2006 interessando l’Assessorato Beni Culturali Ambientali e P.I., il Dipartimento Beni Culturali ed Ambientali ed E. P., il CENTRO REGIONALE PER L’ INVENTARIO, LA CATALOGAZIONE E LA DOCUMENTAZIONE DEI BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Servizio Documentazione Unità Operative: Nastroteca, Fototeca, Filmoteca – in collaborazione con il Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”, l’Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, il Museo Etnografico Siciliano “Giuseppe Pitrè”, ha realizzato un progetto di conservazione e valorizzazione della storia dei mercati storici siciliani. Tra le motivazioni del bando si legge:
«Nell’ambito dei finanziamenti previsti dalla Comunità Europea per “Agenda 2000”, il Centro ha redatto un progetto di documentazione sui mercati storici siciliani con l’obiettivo di verificare la persistenza e il cambiamento di forme tradizionali di scambio, all’interno di contesti in trasformazione. Sono stati avviati una serie rilevamenti a tappeto su tutto il territorio insulare, promossi dal Servizio Documentazione, finalizzati alla realizzazione di materiali sonori, fotografici e audiovisivi per la conoscenza e la valorizzazione di queste antiche istituzioni economiche e culturali, attestate in Europa e nell’area mediterranea sin dal Medioevo, oggi, nell’epoca della globalizzazione, soggette a dispersione e smembramento. Partiti dalla considerazione del mercato storico come bene culturale tout court, coestensivo, al suo interno, di molteplici valenze di carattere storico-antropologico, archeologico, architettonico, storico-artistico e ambientale, la ricerca ha avuto carattere interdisciplinare, coinvolgendo diverse Unità Operative del Servizio Documentazione: la Nastroteca, per il ruolo connotativo che ancora oggi riveste l’universo di suoni e voci dentro il mercato, “le abbanniate”, ad esempio, in uso per attirare il cliente sull’offerta. Le prime indagini sono partite da Palermo per la centralità dell’argomento nella storia socio-urbanistica della città, assumendo come area campione di tutta la ricerca il mercato alimentare del Capo e quello di tessuti di Sant’Agostino, entrambi ricadenti nel mandamento del Monte di Pietà, e solo in un secondo momento, Ballarò e la Vucciria. Successivamente ci si è spostati in provincia, sulle zone costiere con i borghi marinari, documentando la persistenza, nella vendita del pescato, di forme tradizionali di scambio quali l’asta o incanto: nel Palermitano sono stati documentati Porticello, Isola delle Femmine, Terrasini, Ustica; nel Trapanese Trapani, Mazara del Vallo, Marinella di Selinunte; nell’agrigentino Porto Empedocle, Porto Palo di Menfi, Licata, Sciacca, Lampedusa. A Caltanissetta è stato documentato il mercato storico dell’antico quartiere Stradafoglia dei “fogliamari”, raccoglitori di erbe selvatiche medicamentose, mentre in alcune zone dell’interno agro-pastorale, sono state rilevate le maggiori fiere agricole e del bestiame, dal carattere periodico e stagionale: Piazza Armerina, in provincia di Enna, Mojo Alcantara e Sant’Agata di Militello nel Messinese, quella del quartiere Corso dei Mille a Palermo».
I mercati siciliani affondano la loro storia a partire dal periodo arabo. In questo periodo tra il X e l’XI secolo le città divennero centri di scambi commerciali all’interno del bacino del Mediterraneo. Il mercato, nel Medioevo, diviene il luogo dei mercanti e degli affari, il tempo è scandito dallo scambio di merci e di denaro ma è veicolo di scambi culturali che danno luogo a quella che oggi, è l’anima dell’Europa; qui prendono forma modi e consuetudini che attraverseranno i secoli e che ancora oggi, nonostante i mercati digitali e globali, sono impronte lasciate molto tempo prima.
Tessuti, stoffe, generi alimentari. Animali, oggetti; spezie oggi certe tradizioni si tramandano ancora. Ci sono i mercati palermitani, ma anche quello di Palazzolo Acreide nel siracusano. In ogni luogo dell’isola, dai centri più grandi a paesi più piccoli, il mercato è realtà imprescindibile come la scuola, la chiesa e i vecchietti seduti in piazza. Giornalieri, settimanali, quindicinali o mensili, i mercati sono fondanti essi stessi dell’identità dei luoghi. Li vivacizzano, generano momenti di socialità, sono tradizione e costume. Dal punto di vista antropologico e sociologico mostrano ciò che permane e ciò che cambia con il trascorrere del tempo. Inoltre, sono girovaghi come lo sono i circensi e i maestri dell’opera dei pupi perché l’origine medievale li accomuna. Ci sono anche i piccoli ambulanti con “lape” colorate e furgoncini personalizzati. Ci sono i mercati delle Pulci dove far ottimi affari se si sa guardare bene tra pezzi di pregio e cianfrusaglie. A Catania, in Piazza Carlo Alberto, c’è La Fiera, nota come “Fera o Luni” (fiera di Lunedì), che rappresenta il centro nevralgico ed è aperta tutti i giorni della settimana. Le merci variano dalla frutta al pesce fresco, dagli oggetti di antiquariato all’abbigliamento. E non si può scordare “A Piscaria” presso le mura Carlo V, nel cuore del centro storico.
Sebbene in questo periodo, in cui i ritmi della mercatura sono stati bloccati e stravolti dall’infestante presenza del Covid-19 e i mercati che sono stati riaperti da poco, sono stai sottoposti alle regole sanitarie atte a contenere la diffusione del virus, nei nostri cuori alberga la viva speranza che essi torneranno a vivere come e più di prima.
“A banniata”, somiglia al rintocco delle campane che chiama alla messa e riecheggia di sentimenti di popolo e di desideri di festa e di svago. Detta anche “A vanniata”, è una strillata cantilenata. L’origine è un po’ confusa ma la confusione e l’allegra contaminazione fanno parte del DNA dei siciliani; sembra infatti derivi dal latino. Il verbo è abbanniare/banniare: poiché deriva dal sostantivo ‘bando’. Infatti, il banditore strillava a gran voce le notizie per strada, e gli editti del feudatario o del re. “Banniare”, “abbanniare” vuol dire, “gridare”. “U bannìu” e a “Banniata” sono riconducibili al richiamo dei venditori ambulanti: “I banniaturi”.
Volendo soffermarci sulla radice della parola, è assai probabile la derivazione dal latino Bannum, “Banno”, che corrispondeva al potere del signore medievale di emanare ordini e divieti ai quali era obbligatorio assoggettarsi per evitare sanzioni penali. Da qui, il bando, il banditore e la versione dialettale tradotta.
Ciò poiché, l’influsso del latino in Sicilia ebbe rilevanza nella formazione del dialetto, andandosi a mescolare con arabo, francese e spagnolo. Vi sono parole spagnole, come “criata”, la serva; parole orientali, come “sceccu”, l’asino. Numerosi francesismi, come “custurieri”, il per sarto, e la “racina” ovvero l’uva dal francese raisin.
I mercati, allora e una volta di più, sono una tra le numerose espressioni dello spirito di un popolo. Detti e modi di dire sono per noi, oggi, un bene immateriale di prima grandezza. Perciò, vi lascio con due espressioni:
Micceri bannìa chiddu che avi, “Il mercante pubblicizza ciò che ha” e una banniata catanese:
Pigghiaaa, pigghiaaa, pigghiaaaa!, l’invito ad acquistare la merce esposta e offerta.