Inaugurata a febbraio, dopo lo stop forzato a causa della pandemia, l’esposizione fotografica compresa nel percorso “Ge/Boiling Projects” è di nuovo fruibile dallo scorso 2 luglio. Dislocata in due differenti siti – la barocca ex Chiesa del Carmine e il medievale Palazzo Duchi di Santo Stefano – la mostra consente di percorrere i sentieri battuti dalla storia e dall’arte, in una rievocazione scenico-visiva di ricordi e di memoria, in cui la fotografia s’attesta ancora una volta, e una volta di più, quale linguaggio e interpretazione del mondo contemporaneo.
«Siamo ripartiti alla presenza del sindaco, Mario Bolognari – ha dichiarato l’assessore alla “Cultura”, Francesca Gullotta – con la partecipazione a Taormina di Filippo Maggia, curatore per la fotografia presso la Galleria Civica di Modena, che dal 1999 ricopre il medesimo incarico per la Fondazione “Sandretto Re Rebaudengo” per l’Arte di Torino. Lo stesso Maggia, dal 1996, è curatore della Collezione Malerba, e dal 1998 dirige la collana “Fotografia come Linguaggio” per la casa editrice Baldini&Castoldi. Professore di Storia della fotografia contemporanea e Progettazione presso l’Istituto Europeo di Design di Torino, è stato invitato come guest curator per la fotografia al centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato nel 2000 e 2001. Dal gennaio 2001 fa parte del Comitato Scientifico della Galleria nazionale d’Arte Moderna di Bologna e dal maggio del medesimo anno conduce ‘Talking Pictures’, un programma dedicato alla fotografia contemporanea per la RAI, Radiotre-Suite».
In effetti, alla riapertura, si respirava, a parte il caldo afoso e le difficoltà dovute alle norme anti Covid, un desiderio di ripartenza. Lo hanno mostrato i numerosi studenti dell’Accademia di Belle Arti di Catania, attenti nell’ascolto del professor Maggia e di altri fotografi presenti tra i quali Carmelo Nicosia, fotografo di lungo corso e professore presso la stessa Accademia. Vedere quei ragazzi, incuranti del fatto di dover indossare mascherine o dover mantenere le distanze, fa ben sperare sull’importanza che l’arte fotografica deve avere, oggi più che mai. Qui non si tratta solo di comunicazione mediante le immagini, ma di un approfondimento sul reale e sui processi di cambiamento relativi ai vari contesti antropici e sociali, estetici e di visione dei luoghi che la fotografia in quanto Linguaggio dice e traduce.
Maggia ha sottolineato come, nei tempi odierni, l’accesso allo scatto sia celere poiché ciascuno di noi ha un telefonino e la figura del fotografo professionista, che per campare fa questo mestiere, diviene quasi mitologica. Eppure, l’esperienza, la tecnica, lo studio esaltano sempre la differenza nonostante vi siano fotoamatori e non professionisti che hanno molto da dire e da dare.
Ciò, tuttavia, rinvia all’interrogativo: fotografo di professione o fotografo per passione? In realtà, chi fotografa lo fa con cura e con passione e da qui, a voler intraprendere questo come lavoro, il passo pur se non automatico si può fare, sebbene sia diventato difficile camparci con questo lavoro perché anche i siti istituzionali preferiscono immagini da raccogliere sul Web, e tutti pensano che basti “un click” per fare una foto, tanto poi ci sono filtri e post produzione. Ma chi frequenta l’ambiente e vede il fotografo all’opera, in particolare quello che ha fatto la gavetta dall’analogico al digitale, sa bene che anche in questo campo ci vuole perseveranza, umiltà e dedizione infinita. Alla fine, è come per chi svolge la mia, di professione: scrivere non vuol dire essere scrittori o giornalisti. Occorre tanto studio e tanta esperienza; e mettersi in testa che non si è mai arrivati, anzi si è appena all’inizio.
Interessante è stata la considerazione del prof. Bolognari, il quale ha proposto un taglio antropologico sul valore della fotografia, fondamentale per introdurre alla lettura del turismo moderno con l’evoluzione del concetto di Grand Tour, passato dagli acquerelli alle fotografie di Von Gloeden, per dare spazio all’immagine-cartolina, da portare a casa come souvenir. Senza dimenticare – aggiungo – che tra la seconda metà del XIX secolo e il primo trentennio del Novecento, la fotografia diviene strumento fondamentale per gli artisti e gli scrittori. Le fotografie sono “appunti visivi”: sperimentazioni grafiche, narrative, nel segno dell’immagine.
Trascorsi i ventuno anni dalla prima mostra realizzata a Taormina nel dicembre 1999 e le successive edizioni realizzate (l’ultima, GE/14 Altro dalle immagini, nel 2014), la Fondazione “Sandretto Re Rebaudengo” di Torino e la Fondazione “Oelle” di Catania hanno perciò deciso di celebrare un lungo ciclo di mostre e altri eventi che hanno contraddistinto in maniera significativa ben quattro lustri di ricerca fotografica, in Italia, con una nuova esposizione dal titolo emblematico “GE/19 Boiling Projects”.
Gli artisti invitati, 25 nomi, fra i quali Luca Campigotto, Paola De Pietri, Alessandra Spranzi, Francesco Jodice, Antonio Biasiucci, Pino Musi, Carmelo Nicosia, Daniele De Lonti, Luca Andreoni, Tancredi Mangano e Antonio Fortugno, sono fotografi che nel 1999 erano considerati “emergenti” e che oggi figurano come riferimenti per le generazioni più giovani.
Dalla visita guidata che Maggia – supportato da un intervento dal Nicosia – ha offerto, è emerso che dal 1999 ad oggi
«la fotografia in Italia ha percorso molte strade, fra loro anche assai diverse, ampliando gli orizzonti e soprattutto il senso che all’immagine oggi si vorrebbe dare: un contenitore d’idee e progetti che fermentano, trovando soluzioni che paiono talvolta in linea con il momento storico in cui viviamo, altre volte proponendosi come vie di fuga o, ancora, come specchio di condizioni esistenziali, come traspare dalle opere di autori più giovani quali Claudio Gobbi, Gianni Troilo, il duo formato da Tommaso Fiscaletti e Nic Grober, Gianni Ferrero Merlino, Francesco Cardarelli, Nicolò Degiorgis, Luca Pozzi, sino ad arrivare a Renato Leotta, Marco Tagliafico, Paola Pasquaretta, Tiziano Mainieri, Elisa Crostella, Giuliano Severini e Francesco Di Giovanni. Fotografie, film, installazioni, documentazioni di performance, racconti per immagini. Una raccolta di “work in progress” in apparenza eterogenea che, nel suo insieme, appare comunque compatta quanto a capacità espressiva e modalità comunicativa».
Infatti, “GE/19 Boiling Projects – Da Guarene all’Etna”, ovvero dal Piemonte alla Sicilia, è un viaggio nella fotografia contemporanea italiana tra ricerca e sperimentazione”, che si offre come
«un ritratto inedito e alternativo dell’Italia del Terzo Millennio, dei suoi luoghi, dal nord al sud, da Guarene (Cuneo) al vulcano siciliano, attraverso una mostra di fotografie, film, installazioni, documentazioni di performance, racconti per immagini. Il progetto espositivo, del resto, prende origine da “Viaggio in Italia”, mostra e libro del 1984 a cura di Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati».
Trovo l’idea di esporre in siti diversi, facilmente raggiungibili, azzeccata. Ciò vale sia in tempi tranquilli sia in tempi dove viver nell’emergenza sembra abbia assunto la cifra di una nuova normalità. Taormina, data la sua struttura urbana, ha un centro storico raccolto che consente di muoversi in maniera agevole lungo l’arteria principale, il Corso Umberto I, e di accedere ai vari siti. La barocca Chiesa del Carmine e il medievale Palazzo Duchi di Santo Stefano offrono la possibilità di fare un viaggio nella storia, anche in quella del restauro, visto che la zona, dopo i bombardamenti del 1943, è stata interessata da diverse fasi conservative a partire dall’architetto Dillon, sino a quelle che hanno visto impegnato un nostro caro concittadino: il geometra Turuzzu Lo Re.
Le opere fotografiche appaiono a metà tra installazione e performance, in una fruizione in divenire. Partecipare non è assistere passivamente ma entrare a far parte dell’opera stessa, anche perché da soggetto fruitore a soggetto fotografato il passo è breve. Durante la narrazione di Maggia, mi sono avventurata nella sala con uno sguardo lanciato al soffitto e agli stucchi della chiesa del Carmine, e un altro, curioso, alla ricerca delle immagini; ma ciò che m’ha inchiodato, tanto che con fare sfacciato sono passata alle spalle dell’assessore Gullotta, per soffermarmici, è l’Etna di Carmelo Nicosia. L’ho cercata tra le opere, desiderandola come punto di riferimento geografico e dell’anima; lo faccio sempre. Cerco la nostra signora “A Muntagna” e posso affermare che l’Etna, in quelle immagini, mi ha fatto sentire al posto giusto.
All’altra parte dell’esposizione, ho deciso di dedicare un giorno a parte per completare la visita iniziata il 2 luglio e mi ci sono nuovamente recata, venerdì scorso. La “Fondazione Mazzullo”, che ha sede all’interno del Palazzo Duchi di Santo Stefano, ha per me un significato profondo. Un luogo del cuore per via delle mie ricerche, per via di ciò che ho vissuto. Ogniqualvolta vi entro e vi sosto, oppure ne ammiro il percorso con le opere del Maestro Mazzullo esposte nel giardino e nelle sale; ogniqualvolta giro per quelle sale o mi perdo nella visione del paesaggio circostante, allora sento che anche le ansie si placano e mi ritrovo in armonia con il mondo. Quindi ho deciso che la visita l’avrei fatta da sola, pur avendo preso parte alla riapertura della mostra ed esserci stata.
Una nota a margine: la fotografia ha completato il percorso iniziato con la pittura attraverso la differente rappresentazione del paesaggio e ne ha fatto un nuovo modello. Il paesaggio può essere quello che tutti vogliamo vedere, ameno, scenografico, sognante; oppure l’altro, quello che non è all’interno dei canoni del paesaggio. Consiglio, perciò, la lettura di un articolo di Michele Smargiassi, uscito lo scorso 26 giugno, sul blog “Fotocrazia” per il quotidiano “la Repubblica”, dal titolo La trappola del paesaggio fotografato.
Nella sala al piano terra della “Fondazione” le opere di Paola De Pietri “Senza titolo, 2008-2009-2010”, leggono il paesaggio.
Vi sono luoghi ameni che conservano la memoria storica di guerre accennate in foto di grande formato. Ciò che si mostra potrebbe sembrare un canyon ma è una trincea. Ma questo è un filo conduttore che accorda l’intera esposizione da “GE. Da Guarene all’Etna”, in cui la foto del paesaggio non dice ma svela.
Anche nel progetto di Giovanni Troilo The Folding City del 2019, dove l’immigrazione parla la lingua di un ragazzo che beve e sono visibili costruzioni di fortuna, il cui modello è riproposto nella sala. Immagini in cui si percepisce la fatica del lavoro e la ruvidezza del vissuto, concentrato in quel canale di scolo che diparte dalla “casuzza” fatta di ferro e plastica. Foto dove il paesaggio è quello dei campi agricoli. Non si vede ma si avverte mediante quegli elementi.
Interessante, inoltre, il rapporto tra set e fotografia coniugato da Francesco Di Giovanni con The flag relocation sempre del 2019, in cui si traduce il bisogno di un’Europa che somiglia più a un abbozzo ma che nei fatti storici, in cui tutti noi siamo immersi, solo sommariamente si è realizzata. La ragazzina etiope, protagonista della performance, ci conduce dal video alle immagini. Dal video vengono fuori le immagini. L’uso del nastro adesivo con la scritta in rosso ‘Fragile’, nastro per pacchi, è metafora di un essere umano, merce, oggetto, pacco. Gli occhi densi e fondi inviano una richiesta di aiuto e di speranza. La bandiera dell’Europa viene impacchettata; resterà una sola stella come unica è la cometa. Qui, il fotografo dirige, è regista. L’opera finale va in scena per scatti. Da un set da cinema alle foto di scena.
La cura negli allestimenti, tenuta in attenta considerazione la location, si nota e trova, a mio avviso, grande espressione all’ultimo piano della “Fondazione”. Ritengo questa sala, quella che più di tutte si presta ad accogliere altre esposizioni, per l’ampio respiro degli ambienti, per la luce e per la fusione che si genera tra luogo e opera.
Ed ecco, ritrovarsi sospesi in “heideggeriane meditazioni” con il progetto di Tommaso Fiscaletti e Nic Grober, scandaglio dentro il rapporto tra uomo e universo, Hemelliggaam or The Attempt To Be Here Now. Un invito a riflettere sul tentativo dell’uomo di muoversi attraverso tempo e materia. Andare a visitare un luogo, deve essere esperienza a contatto con le storie, con le vite e con le persone in una comunione tra arte, fruizione e condivisione di impressioni.
Quindi mi piace far presente la gentilezza e la disponibilità del personale, nel segno della nostra migliore accoglienza; ed essere andata via, accompagnata dalle parole di saluto della hostess che mi ha detto con intensa dolcezza
«Sì è vero, ci sono molti problemi da risolvere ancora ma dobbiamo vedere anche le cose buone e il positivo, non sempre e solo il negativo. Dobbiamo vivere»,
è stata la perfetta conclusione di un pomeriggio piacevole per cui anche a me non resta che augurarvi “Buona Vita e venite a trovarci!”.