Autunno, tempo di raccolta di olive, di frantoio e di olio buono. Quello nostro, della Sicilia nostra; Madre Benedetta e Santissima.
Mia madre – anche lei, donna benedetta e santissima – come tradizione vuole, sta provvedendo alle conserve. Pomodori secchi sott’olio; olive in salamoia, infornate, condite. E le olive “scacciate”.
Ieri pomeriggio, entrambe in cucina, abbiamo condiviso un lavoro manuale che è un rito antico. Un rito che richiede pazienza e fatica ma che dona cose buone. Scaccia alivi, levici l’ossu, sciacqua, mettici u sali e u limiuni, stanno a mollo. L’aria profuma d’olio e di limone, meglio di qualsiasi trattamento di bellezza per le mani ma soprattutto per l’anima.
Sono stata in compagnia di mia madre, rispettando un fare antico che si tramanda di generazione in generazione e che io ho appreso sin da bambina da mia nonna e dalle mie zie. Questo è il fare del femminile; si tramanda e si conserva come il corredo buono e le fotografie negli album di famiglia. A me piace l’odore della cucina e mi piace il domestico. Ieri però ha avuto un sapore ancora più forte e un profumo che mi ha riportato all’infanzia.
Si chiacchiera mentre si condivide il rito e si dimentica il mondo là fuori. Avevo bisogno di lasciare ‘fuori’ le notizie sconfortanti, i bollettini sanitari, le ciarle dei social, i consigli fittizi e volevo stare con mia madre e con Oscar il nostro “principe peloso”. Mia madre – una signora bella, nonostante gli acciacchi – è fiera. Ricca di dignità ed onestà. Un esempio di donna vecchio stampo, di quelle che sono state e sono i pilastri della nostra società, non scordiamocelo mai.
Per questo, ho abbandonato in un’altra camera il telefonino, chiuso il pc e son tornata ad apprendere lezioni antiche e senza tempo; nel tempo che scorre e in quello che si traduce in fare ad arte. Una parola, un’oliva, le risate ad ogni ricordo che veniva fuori, le mani di sale che come da bimba avrei leccato. I suoi racconti e la commozione al pensiero di una vita, a cui niente è stato regalato ma che ha tirato fuori persone come lei. Andare in campagna – mio nonno ero un contadino di Melìa –, ripescare tra i ricordi la raccolta delle olive quando era ragazza e con suo fratello andavano a sant’Alessio a piedi da Melìa, per andare a raccogliere le olive nei terreni dei Mauro, che in base alla raccolta gli davano olio corrispondente. Oppure quando lavoravano a cottimo nelle campagne del nonno del Dottore D’Agostino buonanima – il nonno di Carmelo Antonio per intenderci, era di Melìa – e le sue parole di affetto:
Era un gran signore u nonnu di D’Agostino, è veru travagghiaumu, ma iddu poi ni facìa manciari intra e ni facia ripusari quannu facìa cchiù caudu e poi dopu ricuminciaumu… Gran signore, persone perbene. Erumu sulu carusi e iddu capìa. No, comu d’autru, unu ca ni mannava a cogghiri i mennuli sutta u suli e i manu spaccati. Erumu carusi…
Ed io in silenzio, ad ascoltare e a pensare a ciò che noi oggi ci troviamo ad affrontare e alla forza che lei dà a me. Io che mi sento un fuscello oppure non lo sono perché mi rivedo in lei: fragile e forte; determinata e pronta a ricominciare.
Mia madre che continuava il racconto, io ca arriminavu alivi pi fari sciogghiri bonu u sali. La sua adolescenza, quando si diventa signorinelle. I primi soldi guadagnati e messi sul libretto. Lei e le sorelle – le mie belle e carissime zie che mi hanno cresciuta pure loro – cucivano e ricamavano le camicette.
A quali luci, chi cannili, si cucìa e l’occhi si pirciaunu.
Camicette che poi portavano tramite un’intermediaria che si prendeva una percentuale, da “Orsola” a Taormina – Orsola a cui la mia famiglia è sempre stata affezionata. Sì, Orsola la mamma di Turi Pira e di Francesca (Siligato) – eppure ce l’hanno fatta.
Non hanno patito la fame – dice mia mamma – come tanti altri durante la guerra. Certo ne hanno fatti di sacrifici però c’era amore nella loro famiglia. Gente modesta e umile, che sapeva faticare e conosceva il valore della vita.
Lei ancora a raccontare, mentre io me li rivedevo tutti con noi i miei cari: i miei nonni; gli zii; i cugini. Noi ragazzini ad ascoltare con la conca in mezzo (il braciere per riscaldarci). Le bucce d’arancia; le castagne e poi i fichi secchi. Ed ho pensato a ciò che davvero potrebbe aiutarci a superare questo periodo, divenuto ‘incerto’ all’infinito.
La risposta mi è giunta da lontano per bocca di mia madre: la Famiglia. Dobbiamo stare uniti nonostante le difficoltà come hanno fatto loro.
A tavola si sta senza telefono, e si parla. Si tramandano i racconti e gli aneddoti perché non possiamo dimenticare chi eravamo e cosa siamo diventati adesso. Lo dobbiamo ai nostri ragazzi. Li stiamo facendo diventare una generazione dall’eterno presente e senza memoria. Penso in particolare ai più piccoli e agli adolescenti. Non porterà a nulla di buono.
Torniamo a recuperarlo pienamente il senso di appartenenza e di comunità o finiremo spaesati e senza radici.
L’ho già detto altre volte e lo rinnovo in questo appello: glielo dobbiamo a questi ragazzi e lo dobbiamo ai nostri cari che non ci sono più. Riappropriamoci di un modo di vivere il tempo differente e non smettiamo di sognare perché i nostri avi, con il sogno e l’ingegno hanno fatto grandi cose.
Mio nonno materno soleva dire: «Tantu o prima o poi tutti all’arburi pizzuti ama a gghiri». Gli “alberi pizzuti” sono i Cipressi; dunque se tutti lì andremo a finire allora, durante il tragitto, proviamo ad agire affinché qualcosa di buono resti a chi verrà dopo.
Dedicato ai nostri cari defunti: custodi di Memoria e costruttori di Valori senza tempo.