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martedì, Ottobre 22, 2024

Leggere per R-Esistere. Rosalda Schillaci e il debutto da romanziera

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Foto di Antonio Giuffrida

Un debutto in grande stile – Venerdì 6 maggio scorso, nella preziosa «Sala delle scuderie» del Castello Ursino a Catania, la scrittrice etnea Rosalda Schillaci ha presentato il suo primo romanzo, fresco di stampa, Quando le uova non si trovavano d’inverno, edito per Algra. L’evento ha trovato spazio all’interno della programmazione relativa al Maggio dei Libri, patrocinato dal Comune di Catania.

Un appuntamento atteso dai lettori che da tempo seguono la produzione poetica e letteraria dell’autrice. Un incontro che ha mantenuto le promesse di suscitare curiosità e interesse attorno a questo nuovo nato. Il pubblico numeroso, ha visto al tavolo, insieme alla Schillaci, la presenza festosa dell’editore Alfio Grasso e la mia.

Rammento ancora: era il mese di febbraio quando davanti all’ingresso del maniero federiciano siamo state immortalate in uno scatto, divenuto presagio augurale dell’evento di venerdì scorso. L’atmosfera, resa accogliente dagli ospiti intervenuti, è stata caratterizzata una interrotta chiacchierata con la Schillaci e mi piace menzionare, oltre all’intervento di apertura dell’editore Alfio Grasso, anche quello delle professoresse Gloriana Orlando e Caterina de Martino. Chi meglio di loro avrebbe potuto sviscerare con competenza e profonda umanità un testo – un romanzo storico – che deve entrare nelle scuole ed essere letto dai ragazzi, per far comprendere loro l’importanza della storia e della lezione di vita che essa lascia a ciascuno di noi.

Tanti erano gli amici presenti perché chi è stato lì venerdì pomeriggio lo ha fatto anzitutto spinto da un moto di sincero affetto e di autentica stima nei confronti della Schillaci.

Ho detto tante volte all’autrice, in privato e in pubblico, che si tratta di un testo benedetto. Un libro che merita un percorso luminoso, e di lettura consapevole, in un momento storico carico di nubi e di incertezze. Un testo che serva da viatico per aprire le menti e rischiarare le coscienze.

A tal fine, credo sia appropriato riportare la prefazione – che sono onorata e felice di aver redatto – per entrare all’interno del romanzo Quando le uova non si trovavano d’inverno, la cui bella copertina riporta il particolare di un dipinto di Giacomo Ceruti del 1736, offrendo insieme al titolo il «Benvenuto» carico di buone speranze dell’autrice.

 

PrefazioneIl percorso intrapreso da Rosalda Schillaci, non poteva che giungere sino a qui, a quest’ultimo nato. Dai giorni di Infiniti Definiti del 2017, con toni ed evocazioni di scuola leopardiana; sostando più e più volte nell’accogliente grembo della siciliana lingua materna, il cui florido risultato è stato Istintu di Jinestra del 2018, in cui palpitano i ritmi della poetica di Meli, Di Giovanni, Vincenzo De Simone, Micio Tempio, Ignazio Buttitta e di Salvatore Camilleri, per approdare al «Canzoniere» orchestrato in «tracce», di Diario sottovento del 2019, ove albergano taluni echi petrarcheschi. Un incessante oscillare tra la poesia e la prosa, tendendo come l’arco la freccia, la parola verso la desiderata ascesa alla consapevolezza di sé e alla compiutezza in quanto donna e scrittrice; muovendosi ora febbrilmente ora con ricercata lentezza nella sperimentazione della «Proesia». Sino a decidere di non potere più sottrarsi, e voler dare di scalpello nella ricerca di quello stile che si è tramutato nella prosa storica del romanzo, Quando le uova non si trovavano d’inverno.

L’autrice sa bene il rischio di puntare su un genere che l’ha condotta a ridiscutere formule e a ridiscutersi, al fine di far naufragare le facili etichette semantiche, che spesso inchiodano un autore a dover essere celebrato a senso unico. La Schillaci ha messo ogni fibra del suo ingegno per scalare una nuova vetta e non ha disatteso le aspettative del lettore. Attese felici, che spera di non deludere così come si evince sin dall’affettuosa dedica:

«Dedicato al lettore che ha scelto di sostare qui. Del tuo fiato vivranno i personaggi di questo romanzo che si offrono ai tuoi occhi, forse per uno strano disegno del destino. Tutt’attorno, tenendo questo libro tra le mani, accada un sommesso fluire di libere emozioni. Solo a te la scelta di vivere passioni e sogni, così fragili e umani. Tra realtà e finzione».

Realtà e finzione, di questo si tratta. Nel tempo attuale, cimentarsi nel genere della narrativa storica è una scommessa di non poco conto. Anzitutto occorre una buona dose di pazienza aggiuntiva, poiché la ricerca di documentazione, l’attendibilità delle fonti acquisite e il fare la quadra con la cronologia hanno necessità di lavoro certosino e tempra da eroi. Inoltre, un romanzo ha sue schematiche articolazioni, risponde ad attacchi e armonie di stile, che non vanno fatte deragliare verso eccessive ridondanze o pindariche evasioni. Rigore, metodo, analisi e struttura della psicologia dei personaggi sono una palestra durissima. L’autrice anche stavolta, superando gli ostacoli del dire troppo o del dire troppo poco, si è distinta per tema e complessità dell’opera, regalandoci uno spaccato storico che si muove tra le testimonianze biografiche e l’affresco di un’epoca; quella che attraversa le due guerre mondiali, e si raccoglie tutta sino a svolgersi intera dal 1943 alla ricostruzione post bellica isolana. Tra i profumi offerti dalla Natura e dalle mani di uomini e donne, in un’arte del fare che travalica i confini spazio temporali, abbraccia i nostri sensi e cattura la nostra mente nell’ascolto di racconti, motti, modi di dire. Un magistrale sapere raccolto nei «cunti» e nelle prelibate ricette che, di generazione in generazione, sono trasmesse nel fluire di un prezioso patrimonio immateriale.

Sì, perché anche stavolta, è la Sicilia a essere narrata in una versatile e accurata prosa. Prosa che fa l’occhiolino alla poetica luminosità del verso, costitutivo dell’essenza di questa brillante autrice. Un romanzo – come ho più volte sottolineato alla Schillaci dopo averlo letto e riletto –, che è testimonianza di vicende famigliari ma trascende i singoli per narrare di uomini, donne e bambini che hanno vissuto e attraversato l’orrore. Alcuni sono caduti nell’abisso per non far più ritorno nel mondo dei vivi; altri sono tornati da sopravvissuti e più morti dei morti; altri ancora hanno scoperto, dopo un viaggio lungo e periglioso, la redenzione del rinnovamento.

Questa è dunque una storia di singoli ed è un romanzo corale, erede di quel Naturalismo e di quel Verismo, tanto caro, e non solo, a noi siciliani. Vi si applica financo un’audace discesa agli inferi mediante l’ausilio della psicologia analitica, sotto la protezione di numi tutelari, quali Freud e Jung.

 

Giallo. Se qualcuno gli avesse chiesto quale fosse il suo colore preferito prima della guerra, Aldo avrebbe risposto usando l’aggettivo che declinava la luce di miele di un’isola eternamente in lotta con il destino. Gesualdo Giambirtone, sapeva dire del blu del mare solo guardando allo specchio i suoi occhi. La distesa infinita era per lui il grano di campagne dorate, di un paesino dell’entroterra siciliano. La luce del crepuscolo che si posava sull’ocra dei muretti di pietra di San Silvestro in Fiore. Nel periodo bellico la sfumatura era mutata nel giallognolo della pelle, ovunque votata alla miseria. Non più soltanto a tagliare la fame coltivando limoni che nessuna mano raccoglieva, ma lontano da casa, nell’epoca del finto metallo, il giallo era diventato il cereo madore di marce impolverate; del sudore a chiazze sulle divise. Le preghiere scordate – vere agonie sperdute nelle rughe della terra – precipitavano torve a confondere la fine del mondo scatenando una vampa violenta. Ora.

 

Ed ecco che ci viene consegnato, in un muto invito ad accoglierlo, il protagonista maschile: Aldo. Di lui bisognerà che ne gustiate ogni dettaglio così come della sua metà, e mèta, a cui tornare per essere di nuovo a casa: Stella Magrì. La storia ha inizio il 9 settembre 1943, Ventunesimo anno dell’Era fascista, dopo la firma dell’armistizio e si svolge in luoghi differenti, tra teatri di guerra, campi di prigionia e paesini saturi di profumi e bellezza, nonostante siano stati fiaccati e prostrati dai bombardamenti e dai rastrellamenti, causati da chi in un rapido cambio del gioco delle parti, da nemico è divenuto amico oppure nel cambio di casacca ha indossato i panni del traditore o quelli del nuovo carnefice. Passaggi che si aprono su luoghi dai nomi reali o declinati verso una delicata finzione. Un viaggio, dall’Italia continentale sino all’entroterra siciliano, dove a consumarsi tra preghiere e speranze, «Stella era un fiocco fragile tra tanti fiocchi solitari. Affannatissima e sul punto di perdere le forze, s’attardava. Il vetro a causa del respiro inquieto si era appannato; lo pulì passando i polpastrelli». Ma ci sono le creature da accudire e proteggere; i frutti dell’amore, i figli benedetti: Nunù, Sasà e Lina.

La scrittrice, inoltre, non trascura di dare il giusto peso anche al lato maligno, che in quiescenza si rintana negli angoli più oscuri dell’essere umano. Quell’essere a cui le perdite e i dolori hanno indurito e incattivito il cuore. Da questo male – l’altro lato della medaglia –, la Schillaci ha fatto emergere figure di rilievo, in un romanzo avvincente che si legge d’un fiato ma che al contempo impone lentezza, per assaporarlo e farsene avvolgere. Una storia dal sapore dolceamaro, forte e tenera, inchioda alla riflessione su un’umanità che può esser mutata nei costumi lungo il corso dei secoli, ma non nelle reazioni più oscure o solari dell’umano sentire. La sapiente penna dell’autrice ha dunque estratto dall’incandescente magma della creatività

 

Comare Spina Silia, il cui nome registrato sui documenti era Silvestra e per un vezzo, di punto in bianco, aveva sostituito nelle presentazioni Studda con il diminutivo di Ausilia. Il prenome, appreso da forestieri, lo riteneva a suo dire originale ed elegante; le consentiva di raccontarsi al mondo come una buona samaritana.

 

Questa complessa figura femminile è degnamente accompagnata dal suo alter ego maschile, l’avvocato Musumeci, «che nell’ambiente chiamavano ‘faina’, per via di una macchia bianca sul collo». Asperità e delicatezza, per nostra fortuna, tengono in perfetto equilibrio le fila della narrazione per giungere ad Agostina, amica dal cuore generoso e alleata di Stella. Figlia di Silia è

 

la parte buona del frutto: la caratura di semi per pesare i preziosi; produceva ombra: era il ristoro in luoghi aridi. Una chioma riccia e fitta le incorniciava il volto dalla pelle ambrata. A ventidue anni emanava la luce di una dignità innata, come chi coltiva pensieri pacati e animo gentile, nonostante un mondo di violenze. Lo sguardo era aperto nei magnifici occhi, grandi e limpidi di cielo primaverile, che superato il duro inverno aspira solo all’estate.

 

1914; 1919; 1943; 1945; 1946: la macchina del tempo procede sbalzandoci avanti e indietro per riconsegnarci pagine di «Storia e Storie», come spesso mi ritrovo a scrivere in merito ai diversi accadimenti del mondo. Pagine che hanno influenzato e hanno contribuito, nel bene e nel male, a farci essere ciò che oggi siamo; individualmente od operanti nella società.

Vi è allora la possibilità che la salvezza giunga dal nostro essere custodi della memoria e delle memorie. Quindi diviene atto fondante e necessario il conoscere, offrendo accesso all’acquisizione di buone capacità di lettura e di comprensione delle pagine, che riguardano noi tutti. Per tale ordine di motivi, in questo affresco, non potevano mancare i guardiani del ‘Sapere’. Tra essi, Giorgio Marchesi, figura fondamentale, già si palesa in questi toccanti tratti descrittivi:

 

si scosse, smise di leggere e spostò indietro la sedia: “Vengo subito. Anzi, per cortesia Anna, riferiscilo a mia moglie e scalda del brodo di carne. Portane una tazza abbondante a quel poveretto.” Afferrò i fogli, li piegò con cura, e li inserì nella tasca interna della giacca. Prima di uscire, si fermò buttando uno sguardo alla finestra. Fuori, i prati erano fradici di pioggia e imperversava il temporale: brontolii di tuoni insieme a scariche elettriche infiammavano il cielo. I grandi tigli nei viali venivano scossi con violenza.

 

Un mondo investito da enormi stravolgimenti, generatori di fatti e misfatti, che hanno modificato sin dentro le viscere le vite delle persone. Un mondo che l’autrice ci restituisce intero e frammentato insieme al rispetto per il ricordo e il dovere morale di portare testimonianza, in un immenso atto di amore e riconoscenza per chi è stato prima di noi e ci ha permesso di essere e di esistere.

 

 

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