Angelo Campolo e le sue “Umane Storie”. La narrazione dell’altro per capire se stessi.

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Foto di Francesca Cannavò "Fondazione Taormina Arte"
Angelo Campolo e il Maestro Oteri
Foto di Francesca Cannavò

Finalmente ci sono riuscita! Ieri sono andata a trascorrere il pomeriggio in uno dei luoghi a cui è legato il mio cuore: la “Casa del Cinema” di Taormina, sul centralissimo Corso Umberto, in un antico palazzo nobiliare sorto tra il XVII e il XVIII secolo e restaurato proprio per dare una dimora a quest’arte. Luogo in cui si viene accolti dalla mostra a cura del Segretario della “Fondazione Taormina Arte Sicilia”, Ninni Panzera, e dagli splendidi sorrisi del suo staff. Sì, è un luogo del cuore e in cui per vari motivi ci ho messo tanto cuore. Avevo bisogno di andarci, per salutare vecchi amici riuniti nella confortevolezza dello stare a teatro e, per assistere a un reading non convenzionale. Oggi si parla di letteratura ed eventi; teatro ed eventi; musica ed eventi e nell’eventualità che qualcuno non abbia ancora ben compreso, in tutto questo rutilare di spettacolarizzazione, che dovrebbe richiamare maggiore interesse per il variopinto mondo culturale, si finisce spesso stritolati in qualcosa, a metà strada tra il battesimo dell’anno e la presunzione di essere i vati assoluti del nuovo millennio. Attenzione, questo accade in ogni ambito del variopinto mondo culturale, tanto che ci sono state occasioni in cui mi sono sentita come un riccio preso all’angolo. Al contrario, ieri, già pregustavo il momento ed ero semplicemente felice. Felice del freddo accettabile e decembrino. Felice di godermi la mia città in quegli angoli che solo io conosco. Felice e basta!

Angelo Campolo, è uno che di teatro, letteratura, cinema e narrazione si è nutrito parecchio e sa trasmetterlo con ironica consapevolezza di essere un “umano tra gli umani”. Se poi ci aggiungete che è pure “un beddu figghiu” – non ho intenzione di tradurre l’espressione in vernacolo perché perderebbe di impatto poetico – ed ha delicatamente affondato il coltello nelle nostre piaghe da pregiudizio di sapere tutto sulla vita e sugli altri, allora potrete capire come io mi sia goduta ogni istante della mise en espace. Ma procederò con ordine o quasi. Il 28 e il 29 dicembre, ieri pomeriggio era per l’appunto il 29, nel cartellone degli eventi proposti dalla “Fondazione Taormina Arte Sicilia”, “Racconti a Natale”, alle 18:30, è andato in scena “Storie di Natale per il signor Auster” a cura di Angelo Campolo con musiche dal vivo del Maestro Nicola Oteri. Lo spettacolo è stato realizzato in coproduzione con l’Associazione “Daf” – Teatro dell’Esatta Fantasia. “Racconti a Natale” è un programma sostenuto dalla Regione Sicilia, dal Parco Archeologico “Naxos-Taormina”, dal Comune di Taormina, dagli Assessorati Regionali Turismo, Sport e Spettacolo, Beni Culturali, dall’Associazione “Sensi Contemporanei”, dalla Direzione Generale Cinema e dall’Agenzia per la Coesione Territoriale.

La saletta si è riempita e ad assistere un pubblico molto interessato, fra cui la sottoscritta. Schermo pronto, luci soffuse, due leggii. Una chitarra. Entra per primo Nicola Oteri; magistrali le sue esecuzioni tra il nostalgico e la speranza di qualcosa di inatteso. Sullo schermo alcune frasi. L’incipit alla successiva narrazione. “Caro signor Auster… Natale?”.

Ci prepara, con alcuni appunti proiettati, a non aspettarci storie “alla Dickens” con il trito e ritrito sentimentalismo. Si percepisce un certo arrovellamento su cosa si vorrebbe evitare di dare in pasto a quel pubblico, sazio di cibo e, in cerca di un refugium peccatorum. L’attore, in visione per noi tutti su quello schermo, ci ha detto chiaro che quelle sono “Le umane storie di Angelo Campolo feat Il racconto del Natale di Auggie di Paul Auster”. E non soddisfatto, ci ha condotto a inoltrarci in dubbi etimologici sul senso della parole “natale”: come giorno di nascita, sorgenza e perché no anche “Alba”. Lì, una frazione di secondo prima della sua entrata in scena, silenziosa e seguita dalla musica di Oteri, io procedo nella mia vaghezza riflessiva. Mi interrogo sulla commistione tra parola e immagine. Tra voce e visione. Campolo somiglia a un messaggero che a suo modo – il modo di essere “solo un attore” – annuncia la “Buona Novella” e mi ricorda un po’ il teatro di Massimo Troisi con quegli equivoci che rischiaravano di luce buona la società. Campolo è messaggero, un Ermes contemporaneo, un po’ Angelus benjaminiano, ma lo è con un sentire risorgente e non da Apocalisse. “Alba”, l’ouverture, mescola elementi di vissuto e considerazioni che vanno al di là del singolo. La nascita di una creatura in un tramonto siculo-mediterraneo-occidentale. Nascita è attesa, timore per ciò che non si conosce davvero, travaglio, spinta ed espulsione. Seppure il parto avviene in acqua dolce e vede l’attore immerso suo malgrado in un contesto tragicomico, la nascita è quella di “Alba”. Anche qui il gioco di parole ci porta all’essenza: una nascita, è nuova vita. Un bambino è un bambino. Un essere speciale da crescere con amore. Ogni bimbo ha diritto ad amore e famiglia. Le famiglie sono tante e possono essere riunite attorno a una mangiatoia oppure su un barcone in mezzo al mare di Lampedusa oppure in un centro di adozione. Ciò che importa è la nascita e il dare la vita. E la vita può nascere oppure può essere restituita come la dignità dell’esistenza. Però Campolo è perentorio: «Non sono il padre sono solo un attore».

Perché l’ho detto che la riflessione, in cui ci ha tirato dentro, è su noi stessi ma a partire dall’altro da noi. Infatti, prosegue; ritmo e nota dopo nota e ci invita, passando dal biografico al letterario reinterpretato, dentro Il racconto di Natale di Auggie Wren. Scritto da Paul Auster, nel 1990, per l’edizione di Natale del “New York Times”. L’ispirazione per la storia venne ad Auster dopo aver aperto una scatola di sigari Schimmelpenninck, i suoi preferiti, mentre ripensava al tabaccaio di Brooklyn che glieli aveva venduti. Ciò lo portò a riflettere sui rapporti che si instaurano quotidianamente a New York con persone che non si conoscono affatto.

La “messa in scena” tra il serio e il faceto di Campolo, ci fa ondeggiare tra la nostra vita italianissima e quella della Big Apple. I dialoghi si alternano. Ci sono quelli scritti di pugno dall’attore, per poi andare a fermarsi in casa della narrazione austeriana. Sostenuti dalle immagini, siamo spettatori un po’ guardoni di vite d’altri. E in fondo non ci dispiace, perché siamo la cultura delle immagini e del voyerismo virtuale. Qui, però, siamo sull’altalena della letteratura che ha influenzato Auster: Cervantes, Kafka e Shakespeare. Lo stesso Auster è convinto che, spesso, il romanzo dica la vita meglio della realtà stessa; dunque Angelo Campolo ne ha raccolto lo spunto per dire di sé ma attraverso gli occhi degli altri, che come specchi rimandano la nostra immagine più vera di quanto noi stessi avremmo potuto immaginare. Ecco perché l’occhio gettato alla fotografia, dentro gli album di Auggie che raccontano la vita per immagini. Un funambolico gioco, tra cinema e teatro, che si riannoda alla letteratura in un precario equilibrio di significati.

Siamo totalmente calati nel mondo austeriano di Campolo, e osserviamo incantati, sotto l’effetto delle musiche di Oteri, la sequenza cinematografica di “Smoke”, trasposizione del racconto di Auster, uscito nel 1995, diretto da Wayne Wang con la collaborazione dello stesso Auster. Le musiche, eseguite dal vivo sono composizioni inedite e reinvenzioni di brani celebri come “Innocent When You Dream” di Tom Waits, nello stile asciutto dei racconti.

Lo stesso Angelo Campolo, nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, ha motivato tale scelta perché «ognuna di queste narrazioni ha come comune denominatore la scoperta dell’altro, riflettendo di storia in storia, sulla nostra capacità e disposizione ad esplorare punti di vista diversi dal nostro. L’incontro con questo “altro” che spesso ci sorprende, ci disturba o ci disorienta, in fin dei conti dipende da noi. Dal nostro modo di accostarci a lui, dal nostro sguardo, dalla nostra curiosità e soprattutto dal nostro rifiuto di cedere all’indifferenza o ai preconcetti – ed ha sottolineato che si tratta – di un tema speciale, necessario in qualunque forma di celebrazione del Natale, perché consente di riflettere su di una dimensione intersoggettiva che va oltre le singole entità “io” e “tu”: un territorio che di fatto non appartiene a nessuno, all’interno del quale giocano forze molto potenti. Una grande sfida che ci attende, cui siamo chiamati e in cui saremo giudicati a seconda che tratteremo l’altro da fratello o da estraneo».

Il passaggio da un racconto all’altro – che a sua volta diviene capitolo di un testo tradotto e reinterpretato, in cui attore, narratore, autore si scambiano vicendevolmente panni e pure pelle – ci conduce sino al nucleo della nostra esasperante diffidenza con “Tanino”. Storia di malavita, perdita del diritto di essere solo un ragazzo, recupero e paventata redenzione. Ma redenzione per chi? Per Tanino “boss in erba” o per Angelo Campolo, che “è solo un attore”? Chi ha recuperato “chi” con i progetti educativi e di inclusione offerti dal Ministero? Chi ha compreso più l’altro e dell’altro?

Qui la messa in scena è stata un ponte per noi, per Angelo Campolo, e per gli altri. Quel venirsi incontro e quel saper riconoscere gli errori, offrendo possibilità di riscatto. Accendere una scintilla di speranza per una vita diversa, non fa forse parte del messaggio mediato dalla “Nascita” di Gesù? Qui, non è necessario il sentimentalismo; più semplicemente basta “essere umani”.

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