Non mi pento del ritardo – Perché recensire un testo già uscito da mesi e non quello – il “Proust” promesso e nato da poco –, che a breve sarà presentato ai lettori? Semplice: i testi non hanno un tempo preciso per leggerli. Non amo leggere nell’immediato un libro acquistato mesi o addirittura anni prima; procedo in sintonia con il mio esserci. Nel furor delle tempeste di Luigi la Rosa, edito da PIEMME, ha compiuto un lungo viaggio, presentazione dopo presentazione. Sono certa che ancora andrà di luogo in luogo, accompagnato dal più giovane testo su Proust.
Dall’iniziale resistenza al grande salto – Ho scelto ottobre per dedicarmi alla lettura del romanzo sull’incredibile esistenza del “Cigno di Catania”.
Devo confessare un iniziale momento di resistenza al testo di Luigi, e ne spiegherò il motivo. L’ho avvertito respingente nel ritmo più lento, adottato per la parte dell’infanzia e degli esordi dell’enfant prodige etneo. Era come se l’autore lo tenesse incatenato a sé, privandoci del desiderio di vedergli spiccare il volo. Solo procedendo nella lettura, pagina dopo pagina, ho compreso.
La storia e i suoi personaggi – Nel rispetto della manzoniana differenza tra «vero e verisimile», registro del romanzo storico –, i vari caratteri presenti nel testo, ti entrano sottopelle e non ne sei consapevole sino a che non ti ritrovi a pensare alla pagina seguente, sentendoti parte del loro vissuto. Da quel momento capisci che il testo funziona, come si usa dire tra gli addetti ai lavori. La trama regge, lo stile parte sottovoce poi s’impenna e il lettore, suo malgrado, è dentro a quell’immensa opera lirica che è stata la vita stessa di Vincenzo Bellini.
Da un luogo all’altro d’un Italia risorgimentale – La partitura del romanzo è assolutamente impeccabile. Non potrebbe essere altrimenti, data la strenua ricerca della perfezione di La Rosa, “posseduto” da Bellini, e a tratti, più belliniano dello stesso. Un susseguirsi di tappe nel viaggio dell’uomo e grande Maestro catanese: Napoli e gli anni della rigorosa formazione; Milano e il grande salto; Parigi e la maturità che declina verso il tragico sfiorire. Un’Italia in subbuglio, tra passaggi illuministici e rombi risorgimentali. I caffè, i cambi di tono dal sole del Sud alle brume del Nord. Un itinerario che ci illumina su un’epoca, trattata con delicata dovizia di particolari, offrendoci sublimi ritratti di uomini e di donne.
Le donne: vere protagoniste del romanzo – Non desidero scadere in una filippica femminista, mi si permetta però di sostenere con forza questo pensiero.
La musica eccelsa, che ha pervaso ogni fibra del «biondo Cherubino», si è ispirata a Sante e Muse. Nulla di più sacro, regalatoci dalla raffinata eleganza narrativa di Luigi La Rosa. A partire da Agata – la “Santuzza” –, che protegge e giunge a indossare i panni della madre genitrice. Nome benedetto e trasporto immenso di amore. Quell’amore ha rescisso due volte il cordone ombelicale per lasciare il suo Nzudduzzu libero di esistere tra gli incessanti marosi d’una vita in tormento. Il successo, la fama; lo studio estremo e il talento impagabile. Lena, le Giuditte; la Malibran, la Luna…
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante
Senza nube e senza vel…
Il femminile schiuso in una delle mutevoli espressioni della Grande Madre: la Luna. Lilith che è luce e ombra. Vita e morte. Là, si ancorano anche le origini della Agatha Catanensis.
Le donne svettano – si veda Cristina Trivulzio di Belgioioso, intellettuale e patriota –, in quel clima di formazione dello spirito dell’emancipazione femminile.
E gli amici, allora? – Naturale che non si possa dimenticare il complicato rapporto di «odi et amo» tra Bellini e Florimo. Le frastagliate collaborazioni con gli impresari; la disperata ricerca di conferme da quel padre putativo, che è stato Gioacchino Rossini. Vi sono le rivalità e gli scontri; ulteriore sostegno dell’impianto narrativo. Un testo che occorre leggere come fosse uno spartito e immergervisi dentro tali e quali ai personaggi d’un libretto.
Un’ultima nota – Riallacciandomi a quanto espresso in premessa, torno a sottolineare che il valore di un testo si misura, da quanto esso sia resistente agli urti del mercato e all’indice di gradimento dei lettori. Il “Bellini” di Luigi la Rosa ha superato la sfida.
Possiede le qualità del classico; c’est magnifique!