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giovedì, Gennaio 23, 2025

LE INTERVISTE AL TEMPO DEL COVID-19. UN OPERATORE SUL CAMPO

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Foto di Rogika

L’ascolto dell’altro si è fatto prepotente. Dire che “andrà tutto bene” e che si “deve restare a casa”, ai tempi del Covid-19, non acquista corpo e sostanza senza la voce di chi, nonostante le insidie del nemico visibile solo al microscopio, continua a svolgere il proprio lavoro. Per molti, non più solamente una professione ma una missione. Una discesa in campo per sostenere e proteggere noi, che a casa siamo chiusi tra le nostre mura domestiche e siamo al sicuro per la tenacia e la scelta consapevole di coloro che sono i nuovi eroi, in questa Italia del 2020.

Ho raccolto le dichiarazioni di un operatore sul campo. Un altro soldato che rischia ogni giorno la propria pelle per darci una speranza in più. Si tratta di una persona che lavora in strada in una città del nostro Paese, ma per ragioni di privacy ho deciso di tenere anonima la fonte. Ciò che conta qui, sono le sue parole e la verità di chi il campo lo vive ogni santo giorno e non è per nulla facile, e merita rispetto e tanta considerazione da parte nostra, che invece spesso pensiamo a come aggirare gli ostacoli e non abbiamo pazienza. La città potrebbe essere una qualunque città d’Italia. Lui fa parte di un corpo che si occupa della cura e della protezione dei cittadini.

Il suo racconto ha superato i confini dell’intervista ed è diventato un diario forte e doloroso che ho deciso di lasciare integro per farvi entrare non solo nella sua vita ma nelle vite di questi nuovi eroi, che non vogliono essere definiti tali, ma vi diranno che stanno facendo solo il loro lavoro.

 

Come state vivendo la situazione sul campo e quanto si è modificato l’aspetto delle città e dei rapporti umani?

A fine febbraio, percepisco che qualcosa stava per cambiare ma non avrei mai immaginato di dover controllare veicoli e persone per far rispettare un decreto, che priva della libertà di uscire dalle proprie abitazioni.

Inizio marzo – incredulo – ci arriva l’ordine di controllare se nei luoghi dove eravamo in servizio vi fossero assembramenti ed eventualmente di scioglierli e di far mantenere le distanze (almeno un metro) tra le persone.

5 marzo. Leggo che nella notte precedente era uscito il decreto che proibiva alle persone di uscire dalle proprie abitazioni se non per necessità e urgenze o situazioni legate al lavoro. Con stupore, noto una pattuglia dei Carabinieri affiancare un gruppo di turisti, dicendogli di rientrare nei propri alberghi. Quello che avevo letto sul decreto, era diventato reale davanti ai miei occhi. Dovevo per tutto il turno, tra disposizioni incerte e dubbi operativi, dire alla gente di tornare a casa o nei propri alberghi. In sette ore di lavoro, essendo il più anziano del mio gruppo, in pieno centro storico cittadino, dovevo cercare di apprendere rapidamente e capire cosa era lecito o non lecito fare. Mantenere le distanze, collaborare con le altre forze di polizia e soprattutto spiegare alla gente perché dovevano restare a casa.

24 marzo. Posto di blocco! Fermo tutti i veicoli e tutte le persone che transitano. Ma non sono molti e tutti forniti di autocertificazione. La maggior parte di essi, è costituita da medici, infermieri, farmacisti, personale dei supermercati che vanno o vengono dai luoghi di lavoro. Le strade sono deserte, si odono solo i gabbiani. Non ci sono bambini, soltanto qualcuno con la busta della spesa o la ricetta in mano per andare in farmacia… E la fila alla “Caritas” dei senzatetto che vanno a chiedere un pasto. I negozi del centro hanno le saracinesche abbassate; bar e ristoranti chiusi. Chiudo gli occhi e non riesco ancora a crederci.

1 aprile. Posto di blocco per il controllo del DPCM Covid-19: fermo un veicolo, a bordo il conducente mi mostra l’autocertificazione e il documento di identità. Un altro medico, lavora in Policlinico, che dopo un estenuante turno torna a casa. Faccio il saluto e mi permetto di chiedere com’è la situazione in ospedale. Mi risponde che la situazione è sotto controllo ma i casi sono in aumento. Ritiro l’autocertificazione, metto giorno ed ora del controllo, rifaccio il saluto e ci auguriamo reciprocamente buon lavoro. Sono diversi i medici che fermo e qualcuno mi dà anche notizie positive di persone, soprattutto bambini, che stanno bene. I controlli si susseguono: un addetto di una fabbrica di mascherine; una signora che lavora come cassiera in un supermercato e torna a casa dai figli. Lei prima di riabbracciarli deve farsi una doccia lunga per disinfettarsi. Tante persone a cui la vita è cambiata radicalmente. Anche noi indossiamo mascherine e guanti e manteniamo la distanza tra noi colleghi, ma non è semplice. Anche nel cambio turno, bisogna timbrare e cambiarsi facendo attenzione. Alcool e carta assorbente per pulire gli oggetti e il veicolo: gli interni, lo sterzo, il freno a mano, il cambio, lo sportello, le maniglie. Giunge il collega di turno con me. Pulisce la sua parte, indossando la mascherina e i guanti, ci cospargiamo le mani di disinfettante. Dobbiamo prendere i nuovi moduli per l’autocertificazione visto che nella notte precedente ne è uscita una nuova (in una settimana i moduli sono cambiati sette volte). Un nuovo posto di blocco ci attende!

2 aprile. Mi sveglio e mi chiedo come andrà a finire oggi. Anch’io combatto con difficoltà personali e familiari. Venire a sapere che ci sono colleghi positivi e in quarantena non fa stare tranquilli. Pensare di essere malati e magari avere un semplice raffreddore. Si vive ogni istante con l’angoscia e ti chiedi “se e quando toccherà a te”. La casa va disinfettata per proteggere i nostri cari. Al lavoro viene inserita una nuova turnazione e per il contenimento del Covid-19 faccio turni di 12 ore. Dicono che le mascherine in dotazione non siano adeguate. L’Alcool non si trova più. Uso la candeggina per pulire l’auto di servizio. Torno a casa, tolgo le scarpe sull’uscio della porta, vado subito in bagno per metterle fuori dalla finestra. Mi tolgo gli abiti e li infilo in lavatrice. Mi lavo bene le mani, le braccia e indosso un’altra mascherina pulita. Pulisco il bagno ogniqualvolta vi entro per proteggere i familiari. Io dormo in una stanza separata e i pasti sono consumati, mantenendo le distanze di sicurezza. Non ricordo più quando ho abbracciato l’ultima volta i miei familiari.

Accendo il televisore e ascolto i notiziari. Tanta gente sta perdendo il lavoro; tanti non arrivano a fare la spesa. Allora mi sento, nonostante paura e preoccupazioni, un privilegiato. Il lavoro che svolgo ha un’enorme importanza e decido che andrò avanti. Prego, a volte, e ho paura.

 

Un consiglio per chi ancora è duro di comprendonio?

Il lettore, forse, non avrà bisogno di alcun consiglio. Guarderà dentro la propria coscienza.

 

Dopo aver raccolto queste parole mi son dovuta fermare per riprendere fiato. Ho provato una lancinante stretta al cuore e devo dirvi che io mi sono sentita una privilegiata ad essere qui alla mia scrivania, al pc, nella quiete di un pomeriggio di aprile, a scrivere. Ed ho provato anche vergogna perché la nostra Italia migliore è là fuori a combattere mentre noi ci lamentiamo se abbiamo messo su qualche chilo oppure se non possiamo fare trecento uscite al giorno, pure per le cazzate!

Allora ho pensato di dedicare a lui e a tutti coloro che sono i nostri Angeli, alcuni versi del brano di Lucio Dalla “Se io fossi un angelo”:

«Perché io sento che, son sicuro che

io so che gli angeli sono milioni di milioni

e non li vedi nei cieli ma tra gli uomini

sono i più poveri e i più soli

quelli presi tra le reti

e se tra gli uomini nascesse ancora Dio

gli ubbidirei amandolo a modo mio

a modo mio…».

A noi di “JonicaReporter” spetta il compito di ringraziare l’operatore che ha concesso questa intervista. Ringraziamo anche Roberto Mendolia che ha voluto dare il proprio contributo con una sua foto.

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