ROGIKA E L’ENORME TEMPO DI “TEOREMA SICILIA”

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Foto dell'autore
Rogika-Roberto Mendolia
Foto dell'autore

Era il maggio del 2018, Roberto Mendolia – Rogika – inaugurava la sua personale, “Teorema Sicilia”, a Castelmola. Scrivere, dire, occuparsi di fotografia, non è semplice. Non è mai semplice per ogni manifestazione culturale e non lo è, per il mondo delle immagini e di chi le fa, perché si rischia di scivolare nel “già detto” e nel banale. Ma decidere di entrare dentro alle vite degli altri, siano essi fotografi, scrittori, artisti, è un po’ come entrare dentro e più a fondo nelle nostre di vite. Roberto Mendolia inaugurava la sua personale e già sapevo che questo viaggio sarebbe diventato un testo, perché le fotografie vanno stampate come ama ripetere simile a un mantra. Ha la sua visione della vita Rogika, e le sue visioni. Quando ho avuto tra le mani e sotto gli occhi “Teorema Sicilia”, il testo per l’appunto, non l’ho sfogliato e visionato subito ma mi sono presa tutto il tempo necessario per avvicinarmici senza far troppo rumore. Ho osservato, per giorni, la copertina che riproduce una delle immagini contenute in esso. Avevo visto la bozza, questo sì, ma trovarmi la stampa è stata tutt’altra faccenda. Ti annulla la concezione temporale in senso cronologico. La copertina infatti rimanda al tempo, quello cronologico, è “La Meridiana” di Murat Cura che si trova a Grammichele; rimanda a una cronologia destinata a liquefarsi nello “enorme tempo”, dilatato e sospeso, di una Sicilia bonaviriana. A questo ho pensato. Al disperso, negli anfratti di qualche memoria, Bonaviri. Intellettuale geniale, siciliano di Mineo, e come tanti geniali scordato. Ricordare la trama di uno dei suoi romanzi più belli mi ha trasmesso un segnale da rinviare a Rogika. Ne L’enorme tempo, un medico giovane svolge l’apprendistato in un paesino siciliano che sembra uguale a tanti altri. Ciò che accomuna i paesi, è l’umanità dei vinti dolenti. Bonaviri crea un ritratto di un’isola, negli anni Cinquanta del XX secolo, e lo fa rilucere di poesia perché nel suo genio era poeta. Ce lo restituisce per farci i conti. Ecco, noi oggi, stiamo ancora a farci i conti, con noi stessi e il nostro essere ‘vinti’; incatenati a una forma mentis da cui sembriamo voler emergere, per poi rimpiombare chiusi come bozzoli. Fu Elio Vittorini che riconobbe la forza delle parole di Bonaviri e, sfogliando piano piano il testo di Roberto Mendolia, l’ho ritrovato “in immagini e parole”. Non solo lui, ma tanti altri da Bufalino, a Sciascia, a Consolo; e Rabito, Capuana. Chi volesse sentire l’odore di questa carta e volesse inabissarsi nelle foto, che vengono dette attraverso le parole di questi nostri padri, proverebbe commozione e stordimento. Io, “Teorema Sicilia”, l’ho letto e riletto con gli occhi e le mani e l’olfatto. Ogni volta è come fosse la prima volta, mi si svela sempre nuovo, nell’essere un enorme tempo che sposta le vele nel mare dell’antico. Noi siamo antichi e siamo nuovi. Non mi vergogno a dirlo, ma ho pianto come “una picciridda” – una bambina –, e quelle foto e quelle parole mi hanno straziato il cuore. Un innamoramento continuo e che si rinnova. “Teorema Sicilia” è tanto ed è troppo! Fa male per la bellezza che distilla, goccia dopo goccia, e che ti si trasfonde nell’anima. La copertina e poi la dedica: “A Ruggero”, perché a chi lasciare la parte migliore di noi se non a quel seme che si è fatto frutto di carne e spirito? E ci somiglia ma si distacca da noi stessi in una nuova e magnifica opera d’arte. La migliore che possa esserci. Dalla dedica a un’altra dedica, filtrata dalle parole di Gesualdo Bufalino. Dedica a noi e alla Sicilia. Da Bufalino all’introduzione, che Rogika ha scritto di suo pugno e che ripropone l’enorme tempo, spesso come olio, dove le foto rigorosamente in bianco e nero – eleganti e senza tempo – ci sussurrano di una Sicilia, aggrappata mani e piedi tra le croste dei suoi paesi. Velata dai fili di guai di tanta gente. Gente antica, che parla prima di tutto con gli occhi e invece sta muta, mostrando bocche cavernose di sorrisi, a metà tra la rassegnazione e il riscatto. Un testo, “Teorema Sicilia”, che bisogna centellinare. La scelta bibliografica per le didascalie alle immagini è eccellente. Un romanzo è questo, tra il Verismo e il Neorealismo, con punte decadenti e qualche esaltazione futurista. Così io l’ho letto; e va letto passo dopo passo, senza approssimazione.

Roberto Mendolia è taorminese e si definisce “uno che usa la macchina fotografica”. Ha scelto come nome d’arte l’acronimo Rogika, le cui iniziali segnano i suoi tre nomi: ROberto, GIuseppe, KArmelo, con la trasformazione della “C” in “K”. Ha come logo ufficiale, per il suo sito e le sue foto, una foglia di quercia e su questa scelta, durante l’intervista, mi ha spiegato:

Il simbolo del mio logo è una foglia di quercia e simboleggia la forza. L’idea mi è nata dopo essere stato a Bologna ad “Arte Fiera” ed avere scoperto casualmente Joseph Beuys e le sue “7000 Querce”. Simboleggia la forza, quella che mi serviva e della quale avevo bisogno a quel tempo.

Un artista eclettico e incredibile Joseph Beuys, tedesco, che nel 1982 a Kassel, nel centro della Germania, dove si inaugurava “Documenta 7”, la settima edizione di un’esposizione d’arte a cadenza quadri-quinquennale ambientata nel “Fridericianum Museum”, in occasione della mostra fece ammucchiare 7000 blocchi di basalto nel parco davanti al museo. Prima ci fu l’indignazione generale ma poi si comprese che l’intento era quello di diffusione e adozione dell’arte che si rapporta alla natura. Idea avveniristica poiché il blocco sarebbe stato sostituito da una pianta di quercia e interrato vicino ad essa. Beuys mostra, con l’esempio, che l’opera d’arte testimonia il naturale e non lo annienta; lo custodisce. Oggi, le “querce” hanno trovato casa nel mondo, e i blocchi di basalto sono le pietre miliari che ne definiscono il perimetro vitale. Non mi stupisce affatto la scelta di Rogika, strettamente intrecciata al suo modo di pensare il mondo e alla sua visione del mondo attraverso l’obiettivo. Anche l’intervista, che mi ha rilasciato, ha quasi il ritmo di una confessione, sa di notturno e di rarefatto.

Rogika, da dove nasce l’idea di andare in giro a fotografare la Sicilia?

La Sicilia è una terra complessa e i siciliani sono contorti e spesso cervellotici, fatalisti e amano farsi del male come se fosse l’unica ragione di esistere. Eppure sanno bene che basta poco, un niente per essere i padroni del mondo, ma non lo fanno e se ne “fottono”. Abbiamo tutto: fantasia, creatività, bellezza, vita. Luce, sole, mare. Che cosa ci manca?  Ma abbiamo anche il tremendo potere di dimenticare quello che siamo stati e oltraggiamo continuamente la nostra memoria, la nostra storia, ben coscienti che farsi del male sia l’unico modo per sentirsi vivi.

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, ed è da qui che decido, anche grazie al gruppo degli amici di “Taoclick”, di iniziare questo viaggio, che simpaticamente chiamiamo “invasioni”, in giro per la Sicilia. Ci siamo prefissati la conoscenza di quei luoghi, ai più poco conosciuti, ma che racchiudono la vera essenza di questa terra. Luoghi lontani dai classici itinerari turistici e raggiungibili attraverso una rete viaria da Terzo Mondo. Luoghi di indubbio fascino e pregni di vissuto. Poi la mia è diventata una indagine personale, alla ricerca della mia identità di siciliano e a cosa si celi dietro questo “misterioso rifiuto” dei siciliani al cambiamento. A volte, mi comporto come un amante geloso, come se volessi cercare di capire perché la mia ‘Donna’ dinnanzi a tanta bellezza – che la Sicilia offre – continui a tradirmi, a ostinarsi a rimanere così come è, e a non voler essere semplicemente sé stessa. 

 

“Teorema Sicilia” è un progetto concluso oppure stai lavorando ad altro?

“Teorema Sicilia” non è neanche iniziato. Posso dire che è un progetto a cui tengo molto, in quanto sento la necessità di volere e dovere raccontare per immagini la mia ‘Isola’, lasciandomi travolgere dai sentimenti e dal cuore senza seguire la ragione. Il libro è nato subito dopo la mia mostra a Castelmola, nel maggio del 2018, proprio l’ultimo giorno, quando smontando e sistemando le foto nei contenitori, pronte per portarle via, mi sono chiesto: “… E adesso?”. Sai una mostra finisce, dura il tempo che serve per esporla e poi? Decido quindi di dedicarmi alla creazione di un libro che possa essere il prosieguo di questa mostra per continuare a portare avanti il mio progetto. Ma non desideravo il classico libro fotografico di sole immagini da sfogliare, la mia intenzione era quella di fare stare insieme, proprio come due bambini che si tengono stretti la mano, scrittura e fotografia. Volevo che il libro diventasse una specie di prologo dei miei futuri progetti e assumesse nello stesso tempo le sembianze di una “mostra tascabile” corredata da brevi brani, incipit, frasi di novelle, romanzi, poesie di autori siciliani che hanno scritto e raccontato la Sicilia. Allora decido che “Teorema Sicilia” deve essere il mio primo libro, il libro di “esordio”, fatto di 100 copie numerate, con 100 fotografie e con 100 testi, proprio perché le mie “Sicilie” sono come le “Cento Sicilie” di Gesualdo Bufalino. Ovviamente non è una novità editoriale, tanti illustri e autorevoli fotografi e scrittori hanno portato alle stampe bellissimi progetti dove scrittura e fotografia si tenevano a braccetto, basti pensare e citare Vittorini e Crocenzi, Sciascia e Scianna, Zavattini e Strand. E poi perché, con le mie foto, volevo lasciare delle piccole tracce del mio lungo percorso fotografico, ma intendevo farlo in modo semplice, in silenzio, con umiltà; e poter dire “sì, ci sono anch’io”. Con molta probabilità, ci sarà un “Teorema Sicilia 2”, e stavolta ci saranno i miei racconti. Proverò a tradurre le emozioni dei luoghi che ho visitato, delle persone che ho incontrato e tante altre piccole cose.

Prima di lasciarci, un’ultima domanda: «Cos’è “fare fotografia” per Rogika?».

Sono fortunato. Ho avuto la possibilità di iniziare a dedicarmi a questa passione nel periodo cosiddetto “analogico”; quello, per intenderci, fatto di camera oscura, luci inattiniche, negativi e stampe. Questo mi ha aiutato parecchio ed ha, in un certo qual senso, mitigato il trauma del mio passaggio al “digitale”. Faccio questa premessa non solo per confessarti che sono un fotografo vecchia maniera, e lo sono senza ombra di dubbio, perché amo la composizione in una foto, adoro prendermi il giusto tempo prima dello scatto, sono innamorato delle cose semplici che la vita di tutti i giorni è capace di regalarmi; ma anche perché, sono abituato ad osservare tutto ciò che mi sta attorno ed ho imparato a farlo cercando di essere il meno invadente possibile. Vengo definito uno “street photographer” per l’approccio che ho nel mio modo di fare fotografia. Forse è così, in quanto amo la “strada” per la spontaneità, le meraviglie e le opportunità che è in grado di farmi apprezzare, anche se mi sento più vicino alla definizione di “straight photographer”, questo perché per me la fotografia deve essere diretta, reale, vera, immediata, deve documentare la realtà, la vita così come la vedono e così come si presenta ai nostri occhi. Per me anche un paesaggio è “straight” in quanto reale e immediato. Senza ricerca di effetti particolari e oltre misura. La fotografia non deve essere bella, deve essere buona. La fotografia deve raccontare una storia, la gente deve guardarla come se stesse leggendo quella storia. Una buona fotografia deve essere come un piccolo racconto e tu devi farla nel modo più semplice possibile; tutti devono poterla leggere. E poi la foto non devi spiegarla a chi la guarda, deve già di suo trasmettere il tuo messaggio senza trucchi e senza nessun inganno. Altrimenti non è una buona foto. Certamente devi avere delle buone basi tecniche, senza la tecnica non vai da nessuna parte, un po’ come imparare a guidare l’automobile. Una volta che saprai cambiare le marce e frenare al momento giusto, potrai andare in qualsiasi posto ti conduca il cuore.

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