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Taormina Film Fest. Fallanca (già Direttore di Produzione): “Tutto fuorché un festival internazionale: la confusa ricerca di un’identità”

CulturaTaormina Film Fest. Fallanca (già Direttore di Produzione): “Tutto fuorché un festival internazionale: la confusa ricerca di un’identità”

Organizzare un festival internazionale è una cosa seria. E quello di Taormina non è certo un evento privato. Appartiene, semmai, alla città, alla Sicilia e ai siciliani; alla nostra storia e alla nostra cultura; al suo pubblico. E a questo bisogna rendere conto. Da sessantasette anni si attesta come uno dei festival cinematografici più antichi, continuativi e ininterrotti, che ha ospitato premi storici e prestigiosi, anteprime di film poi divenuti cult e iconoci divi della Settima Arte. Duole e rattrista – a ogni storico amico del festival, come chi scrive – constatare che, per l’ennesima volta, è alla prese con la confusa ricerca di un’identità. Tutto fuorché un festival e tantomeno internazionale. E, a chiunque abbia una minima familiarietà con la materia, sorge spontanea ben più di una preoccupazione.

Pare, infatti, ci si debba accontentare unicamente di 13 lungometraggi piuttosto eterogenei (fatta eccezione per un restauro e un documentario di Tornatore certamente non inedito). Una Selezione così scarna che si ha oggettiva difficoltà a definirla tale. Una varietà artistica, programmaticamente decantata, che stride non solo con pagine di storia festivaliera ormai mitizzate ma anche con il solco che, con ambizioni e premesse differenti, è stato tracciato nell’ultimo triennio e persino nello sciagurato 2020, che a causa della pandemia ha visto solo 42 anteprime, di cui 11 extraeuropee, e ospiti internazionali del calibro di Emmanuel Seigner-Polański, Willem Dafoe, Nikolaj Coster-Waldau, Vittorio Storaro e Monica Bellucci. Quando nel 2019 abbiamo reintrodotto i premi ufficiali – i Cariddi e le Maschere di Polifemo – non pensavamo che, nel giro di appena un biennio, ci saremmo ritrovati l’intera filiera audiovisiva ridotta a un’unica categoria competitiva di appena 6 opere prime in concorso, assai etorogenee nei generi, alle quali corrispondono 5 premi, assegnati da altrettanti giurati (peraltro a maggioranza italiana).

Sconcerta il provincialismo della Selezione quanto i toni sensazionalistici con cui vengono presentate modeste “première”, quasi immediatamente disponibili presso i circuiti di distribuzione. Non sembra che il festival sostenga le sale, quanto che le uscite in sala sostengano – anzi sorreggano – il festival. E duole, col senno di poi, dover ricorrere al revisionismo storico e rivalutare la caratura internazionale delle discusse – e, a questo punto, forse troppo severamente avversate – edizioni di una parentesi glamour dell’ultima decade, che tuttavia assicurava opere d’indubbio richiamo e un parterre di caratura internazionale.

Non si parli più di ripartenza, di rilancio, di rifondazione. La soluzione di continuità è stata già stata scongiurata pià volte ed elevati standard qualitativi sono stati regolarmente assicurati. A fronte di scelte produttive deliberate, non ci si trinceri dietro l’alibi di vessati scenari post-pandemici, di un’incertezza di certo non paragonabile a quella di un anno fa e di difficoltà nella mobilità internazionale, puntualmente smentiti – all’atto pratico – dalla quanto mai ampia disponibilità sul mercato di titoli di recente produzione e da quella proporzionale di talent e grandi star in occasione di altri eventi, anche d’inferiore blasone. Per non parlare dell’effetto straniante e surreale ad appena pochi giorni da Cannes e a un mese scarso da Locarno.

Troppo spesso ultimamente ci si è messi in bocca l’espressione “grande cinema”, quasi come se il pubblico festivaliero taorminese non fosse abituato. Non ci si è posto scrupolo alcuno a sacrificare ambizioni internazionali e cinefilia, a favore di un esiguo parterre prettamente nazionale ed “esordi” di colossi dello streaming, ben lontani dal rappresentare anteprime di produzioni originali delle stesse.

Senza nulla togliere alla massiccia rappresentanza di cinema italiano e a ospiti che non costituiscono di certo novità alcuna, non possiamo che confidare che il pubblico pagante accorra numeroso in sala per seguire ugualmente la scarna Selezione e i titoli del Teatro Antico, le cui pietre millenarie, anche in decenni non troppo remoti, hanno ospitato le anteprime – quelle sì – di pellicole cult che hanno scritto la storia del cinema mondiale o che, quantomeno, godevano di richiamo internazionale.

Sorvolando sul pettegolezzo frivolo dell’installazione di festoni sull’intero Corso Umberto, Taormina non è comunque solo il ritrovo di casuali “celebrities” nazionalpopolari destinate all’occasionale e ondivago pubblico di un noto polo di attrazione turistica. Con grande rammarico, possiamo solo auspicare che un tardivo moto d’orgoglio restituisca qualità e prestigio alla programmazione e all’offerta artistica. Sorge, altrimenti, spontaneo il dubbio che dietro quelle che potrebbero apparire scelte editoriali – non poi così legittime per il tenore di una simile manifestazione – si celi la precisa volontà di confezionare un prodotto di portata al massimo nazionale, balneare e commerciale. Non ne uscirebbe certamente bene il festival, così come la città di Taormina e la Regione Sicilia, che quest’anno ha, per la prima volta in epoca recente, fin troppo generosamente devoluto sostegno economico all’evento.

Anziché sperticarsi in un’ostinata autopromozione non supportata da evidenze e al netto di un bilancio preventivo non lusinghiero – che ci auguriamo vivamente possa essere smentito in toto – si rifugga il rischio di cadere nuovamente in quella tradizione di continui alti e bassi che hanno attraversato la storia dell’evento. Ammesso che qualcuno la conosca e la ricordi ancora. O ci si tolga, una volta per tutte, dalla bocca la retorica e toni da arrogante propaganda che vuole quello di Taormina come un festival cinematografico internazionale.

 

 

Marco Fallanca

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